26 maggio 1955, Monza. Sul celebre autodromo Eugenio Castellotti, giovane pilota Ferrari sportcar e pilota F1 della Lancia, si appresta a provare la vettura che dovrà utilizzare la settimana successiva al Gran Premio Supercortemaggiore a Modena.
E’ una assolata domenica di primavera ed Eugenio invita a bordo pista il suo amico e maestro Alberto Ascari, già due volte campione del Mondo di Formula Uno, reduce dai primi due sfortunati Gran Premi della stagione a Buenos Aires e a Monaco: in entrambi i casi, mentre il fuoriclasse milanese era nettamente al comando della corsa con la sua Lancia, commise due errori di guida per lui del tutto inusuali e finì fuori pista.
A Montecarlo, finì nelle acque del porto in uno dei più celebri crash della storia delle corse: fu ripescato miracolosamente vivo ma decisamente scosso. Lui che non aveva avuto praticamente mai incidenti gravi, subì molto quei due così ravvicinati. Fu forse per questo che, arrivato sul circuito in giacca e cravatta per salutare Castellotti, decide di esorcizzare i fantasmi salendo sulla macchina di quest’ultimo. Solo qualche giro, solo per provare.
E’ il 26 maggio. Il 26 è un numero particolare per Alberto. Il 26 giugno 1925, esattamente trenta anni prima, sua padre Antonio morì in seguito ad un incidente nel corso del Gran Premio di Francia a Parigi. A quel tempo Antonio era il più grande campione italiano del volante, alfiere dell’Alfa Romeo e recente trionfatore sui più importanti circuiti europei. Quando morì aveva 37 anni ed il piccolo Alberto ne aveva 7. In quel giorno del 1955, Alberto ha esattamente 37 anni.
Castellotti gli presta il casco ed i guanti. Ascari, che è un uomo mite e tranquillo, che ama passare le giornate che non trascorre in pista con la famiglia – la moglie Mietta e i due figli – nella sua casa di Milano, si concedeva un’unica stranezza: una finta e spesso scherzosamente ostentata scaramanzia. Non guidava mai senza la sua proverbiale maglietta azzurra e senza il suo casco, anch’esso azzurro. Quel giorno accetta di guidare con il casco e i guanti di Castellotti. E con un elegante doppiopetto. Percorre qualche giro di riscaldamento, poi decide di “tirare”. Ad un certo punto non compare più sul rettilineo.
E’ uscito di strada in quella che allora si chiamava Curva del Vialone e che oggi si chiama Variante Ascari. Una velocissima piega a sinistra, esattamente lo stesso tipo di curva in cui era morto suo padre. Il suo incidente rimane a tutt’oggi inspiegabile, non avendo avuto alcun testimone. Si è parlato di qualche incauto che attraversò la pista al momento sbagliato o di un problema meccanico, ma nessuna di queste tesi sono mai state suffragate da prove certe.
Quello che è certo è che in quel giorno di sessanta anni fa l’Italia ha perso il suo più grande campione automobilistico dopo Nuvolari, indiscutibilmente il miglior pilota della nostra terra nel dopoguerra, l’ultimo a diventare campione del Mondo di Formula Uno nelle ormai lontanissime stagioni 1952 e 1953, l’ultimo a costituire un binomio tutto italiano “Ascari-Ferrari” capace di dominare il panorama autosportivo mondiale, l’unico che avrebbe potuto contrastare nella sua cavalcata il “Maestro” Juan Manuel Fangio. Alberto Ascari era un talento unico. Che l’Italia non ha più saputo emulare.