15 giugno 1943, trentadue anni fa. Un improvviso attacco cardiaco ad appena 45 anni, segnò la fine dell’esistenza di James Hunt, il pilota più cool di tutta la storia delle corse, meravigliosamente descritto da Ron Howard nel suo capolavoro Rush.
Genio e sregolatezza, talento e impulsività: tutto questo era Hunt, incontrastato idolo dei tifosi britannici negli anni ’70 e grande personaggio ben al di sopra delle sue, pur numerose, vittorie. James fu anche un evidente caso in cui i giudizi tecnici di talent-scout ed “esperti” si rivelarono completamente sbagliati, dato che per anni si dibatté nelle serie minori pagando le vetture di tasca propria, senza che nessuno si accorgesse del suo talento.
Il piantagrane di successo
Iniziò comprandosi una Mini nel 1967 prima di passare in F. Ford e F.2; nel 1971 cominciò ad inanellare vittorie con una Lotus 59, ma divenne celebre più che per queste per la scazzottata in pista con Dave Morgan dopo un incidente all’ultima curva a Silverstone che contribuì ad appiccicargli addosso l’etichetta di piantagrane.
Nel 1972 incontrò Lord Alexander Hesketh, aristocratico inglese con la passione per le corse, per lo champagne e per le belle donne – cosa che lo rendevano assai affine a James – e che aveva un team di F.3: James lo convinse a cimentarsi prima in Formula 2 e poi in Formula 1.
Fu quello l’incontro decisivo per la sua carriera: Hesketh capì lo straordinario talento che si celava dietro quel carattere bizzarro ed imprevedibile, ma anche leale, genuino e diretto come pochi altri ce n’erano. Alla Race of Champions ’73, prima gara in assoluto di James nella massima serie, il nostro finì terzo con una vecchia Surtees affittata per l’occasione: fu quello straordinario risultato a convincere definitivamente Lord Hesketh ad allestire un team per far salire sulla ribalta del Mondiale il suo pupillo.
Affittò così una March 731, unica vettura disponibile in quel frangente per acquirenti privati. La macchina era un mezzo disastro – la scuderia ufficiale March non segno nemmeno un punto in quella stagione – ma nelle mani di James sembrava un missile: esordì a Monaco, dove un cedimento del motore all’ultimo giro lo relegò nono, quando era quarto; in Francia fu subito a punti, sesto, in Gran Bretagna quarto, in Olanda terzo: in quattro gare era nata una stella.
Il trionfo ed il declino
James chiuse la stagione con uno strepitoso secondo posto a Watkins Glen. Fu subito richiestissimo dagli stessi “esperti” che lo avevano snobbato, ma lui rimase con il suo mentore Hesketh, che nel ’74 progettò di schierare una propria vettura: la stagione fu di difficile messa a punto ma portò allo straordinario ’75 dove James colse la sua prima vittoria a Zandvoort e chiuse quarto nel mondiale con altre quattro apparizioni sul podio.
Le difficoltà economiche della piccola scuderia inglese – Lord Hesketh rifiutava categoricamente di ricorrere a sponsor – portarono però il nobile inglese a cedere il team per la stagione ’76; così, quando Emerson Fittipaldi decise inaspettatamente di lasciare la McLaren per condividere con il fratello il progetto “all-Brasil” della Copersucar, fu quasi ovvio che Teddy Mayer ingaggiasse Hunt, inglese e già popolarissimo in patria. Fu quella la genesi della straordinaria stagione ’76 che lo portò al rocambolesco Titolo Mondiale conquistato all’ultima curva dell’ultima gara a discapito di Niki Lauda: un titolo favorito, è vero, dalle traversie dell’austriaco e dal celeberrimo incidente del Nürburgring, ma che ha visto James comunque grande protagonista con sei vittorie e capace di approfittare con grande freddezza e costanza delle situazioni favorevoli.
La grande popolarità raggiunta segnò probabilmente l’inizio del declino, repentino tanto quanto lo era stata la sua ascesa: iniziò ad avere molti interessi anche al di fuori delle corse e le sue prestazioni cominciarono a calare: discreto il ’77 con l’ultima vittoria al Fuji caratterizzata dal suo polemico rifiuto di salire sul podio, pessimo il ’78 penalizzato anche dalla perdita di competitività della McLaren.
Per il ’79 firmò un contratto con la Wolf, ma i negativi risultati delle prime gare lo portarono al ritiro dalle competizioni subito dopo il GP di Monaco, a soli 32 anni.
Quasi subito intraprese una fortunatissima carriera di commentatore televisivo, aiutato dalla sua grande verve e dalla sua innegabile cultura che gli permetteva una parlantina sciolta e pungente: con Murray Walker divenne coppia fissa alla BBC: nei primi anni novanta alcuni guai personali e finanziari subito pubblicizzati dagli implacabili tabloid inglesi minarono la sua salute.
Fino a quel fatidico 15 giugno di trentadue anni fa.