Al di là delle polemiche, Sergio Marchionne un capolavoro, a tutti gli effetti, era riuscito a farlo: prendersi, a prezzo di saldo, il più grave malato di Detroit, la Chrysler che, sull’orlo del fallimento, è stata salvata da Torino. C’era dell’ironia: la piccola metropoli dell’auto italica, appena rilanciata dal successo delle Olimpiadi invernali del 2006 (era il 2008, in fondo) che va a salvare uno dei giganti della metropoli decadente e post industriale per eccellenza: Detroit. Il piano, in fondo, era semplice: Marchionne si portava oltreoceano la tecnologia per fare vetture piccole e efficienti a Detroit, Detroit portava in dote l’accesso al mercato nordamericano, vero tallone di Achille della rete commerciale gruppo Fiat fino ad allora. Il tutto ispirato a una visione, al fatto che, se la crisi del 2008 fosse durata a livello globale, il futuro sarebbe stato di quattro-cinque produttori di autovetture a livello mondiale.
Shopping in Germania
In quel periodo, la Fiat ha pensato di fare altro shopping tra Europa e Stati Uniti, tentando di acquisire anche la Opel, braccio tedesco della General Motors. A dire no ci pensò la Merkel, non convinta dai piani della Fiat. Andò a finire che la GM si tenne la Opel (e i suoi problemi) mentre la Germania cominciava a uscire dalla recessione.
Scambio di piattaforme
Intanto, mentre Torino dialogava con Berlino, Fiat e Chrysler scambiavano piattaforme come se fossero figurine. Da questo scambio, però, sono nati dei modelli che, in Italia, non hanno avuto grandissimo appeal. Su tutti, la riedizione della Thesis che è diventata, sostanzialmente, una Chrysler 300, per esempio, portando in Italia uno stile che italiano non lo è mai stato. Ad ogni modo, la 500 negli Usa è diventata un successo e, con il proseguo degli anni, è emerso sempre più chiaramente che il futuro dell’azienda era negli Stati Uniti o, comunque, lontano dall’Italia.
Fabbrica Italia
Almeno a livello di pubbliche relazioni, la Fiat ha provato a continuare a rimanere italiana: nel 2010 Marchionne provò a lanciare il programma “Fabbrica italia” il piano industriale per gli stabilimenti italiani della Fiat che, tra le altre cose, prevedeva la chiusura di Termini Imerese. Chiusura effettiva dal novembre del 2011. Mentre l’impianto siciliano ancora non vede nessuna forma di riconversione credibile all’orizzionte, ad oggi, per il gruppo, in Italia lavorano 6 impianti tra cui quello di Melfi che, nei piani della FCA sarà responsabile della produzione della Jeep Renegade.
Landini e la Fiom, i grandi sconfitti
Il resto, è una storia fatta di battaglie tra sindacati e azienda con la Fiom di Landini in prima linea nella difesa dei posti di lavoro italiani del gruppo e in difesa del Contratto nazionale. La linea della Federazione della Cgil è uscita sconfitta dal referendum di Mirafiori del 2011. Landini è ancora segretario e Marchionne ancora Ceo. Solo che le cose sono cambiate.
Nasce la FCA
Mentre Marchionne sbandierava un giorno sì e uno no l’italianità del gruppo Fiat, fervevano i piani per la fusione tra Chrysler e Fiat perché non basta comprare un pacchetto azionario per creare due aziende: il capitale deve essere unificato, devono essere unificate le strutture manageriali eccetera. Ecco che, nel 2013 l’annuncio: Fiat e Chrysler si sarebbero fuse dando origine alla FCA, la Fiat Chrysler Automobiles, società di diritto olandese con sede a Londra e impianti ovunque in giro per il mondo. In fondo, il nostro mercato dell’auto cos’è quando il resto del mondo cresce a un ritmo doppio o superiore al nostro?